29.2.08

 

La condizione dell'operaia


La Fiom Cgil ha ascoltato 100 mila lavoratori (non solo operai, anche impiegati). Ne è scaturita un'inchiesta imponente sulle condizioni di vita e di fabbrica. Dall'emergenza salariale a quella sulla salute e sicurezza, dall'orario all'organizzazione del lavoro. Se in media un operaio guadagna 1.170 euro, un impiegato ne percepisce 1.370. Una donna su tre guadagna meno di mille euro. Il 40% degli intervistati ritiene che la propria salute sia stata compromessa a causa del lavoro. (Davide Orecchio)

Il presente dell'operaio sono 1.170 euro in busta paga. Un reddito familiare complessivo di poco superiore. Un lavoro ripetitivo, rigido e monotono allo stesso tempo, con pochi margini di autodeterminazione. Condizioni di sicurezza e salute precarie: che non vuol dire solo rischiare un incidente, ma anche consumare il corpo giorno dopo giorno in mansioni logoranti e ambienti di lavoro dei quali percepisce la nocività. Il presente è anche una transizione in cui gli elementi tayloristici del lavoro di fabbrica (autoritarismo, gerarchia, fissità e ripetitività del lavoro) si intrecciano coi tratti del post-fordismo (adesione ai processi qualitativi ma anche insicurezza, flessibilità e precarietà tipiche dell'era del just in time) in un meticciato industriale che frastorna. E il futuro? E' un lento ma inesorabile scadimento: il 60% dei lavoratori metalmeccanici non pensa che a 60 anni riuscirà a sopportare fisicamente il proprio lavoro. E uno su tre è convinto che entro due anni lo perderà del tutto: dunque un futuro che in realtà non c'è proprio.

Se poi la tuta blu l'indossa un ragazzo, o una donna, o un immigrato - tutto peggiora: meno soldi e meno carriera, un contratto precario, rischi di molestie e soprusi. Scattata da un'indagine imponente presentata dalla Fiom il 29 febbraio a Torino (qui i dati più importanti, mentre sul sito dei metalmeccanici si può scaricare la ricerca integrale), questa è l'immagine di 100 mila lavoratori (non solo operai, anche impiegati). Una foto di gruppo che sta a metà tra il reale e il percepito, un "come siamo e come ci vediamo" che toglie di mezzo - se ce ne fosse ancora bisogno - il luogo comune sull'estinzione di Cipputi. Due milioni di donne e uomini, in Italia, lavorano infatti nel settore, dalle grandi fabbriche alle piccole aziende artigiane. E hanno mille problemi. Chi li risolverà? Presentando l'inchiesta, il segretario generale della Fiom Cgil Gianni Rinaldini ha spiegato che la soluzione, per il sindacato, dev'essere innanzitutto il ritorno in fabbrica per "ricostruire un'iniziativa sindacale sulle condizioni di lavoro ragionando a tutto campo anche sulle forme della rappresentanza''. ''Dalla ricerca - ha detto Rinaldini - emerge una crisi della contrattazione sulle condizioni di lavoro che in questi anni sono peggiorate". Per il segretrario della Fiom "in particolare nelle grandi fabbriche il meccanismo delle Rsu taglia fuori dalla rappresentanza interi cicli della produzione", e dunque occorre "una rappresentanza piu' aderente al ciclo produttivo''.

I dati: il salario

Come si diceva, l’inchiesta si basa su circa 100.000 questionari compilati dai lavoratori di oltre 4.000 imprese, su tutto il territorio nazionale e in tutti i comparti del settore. Circa la metà degli intervistati (44,6%) non è iscritta ad alcun sindacato. La Fiom ci tiene a sottolineare che "un numero tanto elevato di risposte rappresenta un risultato importante che rende questa inchiesta quasi unica per dimensione e dettaglio di analisi". Hanno infatti risposto al questionario circa 70.000 operai e 30.000 tra impiegati, tecnici e coordinatori, oltre 3.000 migranti, 20.000 donne, 10.000 precari, quasi 35.000 lavoratori con meno di 35 anni. Il sindacato evidenzia la "condizione di profondo malessere" che emerge dall'indagine. E il disagio principale è, naturalmente, quello economico: il 30% della categoria ha un reddito mensile inferiore ai 1.100 euro. Se in media un operaio guadagna 1.170 euro, un impiegato ne percepisce 1.370. Esigui i margini di miglioramento con l'anzianità: "la differenza tra un operaio con più di 45 anni - si legge nell'indagine - e uno che ne ha meno di 35 è di appena 100 euro al mese". Una donna su tre, inoltre, non arriva a 1.000 euro al mese: "I redditi più bassi - prosegue la Fiom nel suo rapporto - sono quelli delle lavoratrici e dei lavoratori precari, che nel 60% dei casi non superano i 1.100 euro al mese. Va detto che ben il 10% degli intervistati ha un contratto di lavoro precario, percentuale che sale tra chi ha meno di 35 anni (16%) e in generale tra le donne: tra le operaie con meno di 35 anni una su cinque (21%) ha un contratto di lavoro precario". Difficoltà economiche che si ripercuotono pesantemente sul reddito familiare (soprattutto al sud, dove oltre la metà delle famiglie si mantiene con un solo stipendio). Se il 41% dei nuclei familiari dei metalmeccanici non supera i 1.900 euro al mese, nelle famiglie con tre e quattro persone il reddito pro capite è tra i 700 e i 500 euro al mese.

Orari e organizzazione del lavoro

"Un intervistato su quattro (26,3%) - si legge nell'inchiesta - lavora più di 40 ore a settimana; circa la metà (48%) vorrebbe lavorare meno ore e soltanto una piccolissima minoranza (6%) è disponibile ad aumentare ancora l’orario di lavoro". Inoltre "per la maggior parte degli intervistati - tanto più tra le donne - il lavoro è ripetitivo (65%) e molto parcellizzato (atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (53%) e con ritmi di lavoro elevati (51%), dettati soprattutto da obiettivi di produzione, ma spesso anche dalla velocità di una macchina e dal controllo dei capi". Un operaio su quattro dichiara di non poter fare una pausa quando ne sente il bisogno. Dunque una "condizione tipicamente taylorista" - tira le somme la Fiom - in cui "si sovrappone - e non si sostituisce - l’aggravio di fatica e di responsabilità determinato dagli elementi legati alle richieste di qualità, così che i lavoratori oltre alle asprezze e alle monotonie del taylorismo subiscono anche le pretese e i rischi del postfordismo". Infatti gli intervistati dichiarano in maggioranza che "il loro lavoro comporta il rispetto di procedure di qualità (87%), l’autovalutazione della qualità (73,4%), la soluzione autonoma di problemi imprevisti (67,2%), l’apprendimento di nuove nozioni (64,5%)".

Emergenza salute e sicurezza

Gli operai denunciano di essere esposti a rumori molto forti (56,5%), vibrazioni (50,3%), vapori polveri e sostanze chimiche (43,3%), ma anche a movimenti ripetitivi di mani e braccia (68%) e a posizioni disagiate che provocano dolore (32%). E le condizioni peggiorano per le donne (anche le impiegate): un dato rilevante raccolto dalla Fiom è che ben il 93% delle operaie di terzo livello nella produzione di massa (auto, moto, elettrodomestici) dichiarano di essere sottoposte a movimenti ripetitivi di mani e braccia. Sono molti gli operai che dichiarano come nel proprio lavoro sia molto alto il rischio di farsi male (20%), di fare male ai colleghi (12%) o contrarre malattie (17,3%). Secondo la Fiom "i dati mostrano irrevocabilmente che questi rischi aumentano linearmente con l’orario di lavoro e in particolare oltre le 40 ore". Dall'inchiesta emerge anche che un operaio su cinque (20%) non è soddisfatto delle informazioni ricevute sulla sicurezza e soltanto il 47% ha avuto contatti con il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. "Soltanto il 58% degli operai - afferma la Fiom - considera il proprio posto di lavoro a norma, cioè dotato delle protezioni necessarie per lavorare in sicurezza. Nella siderurgia è addirittura un operaio su tre (68%) a ritenere che nel proprio posto di lavoro non siano garantite le norme minime di sicurezza". Il 40% degli intervistati ritiene che la propria salute sia stata compromessa a causa del lavoro. I disturbi più diffusi sono quelli muscolo-scheletrici (il 40,2% ha dolori alla schiena; il 34,2% a spalle e collo; il 30,8% a braccia e mani; il 25% alle gambe). Il 23,5% degli operai - inoltre - ha problemi di udito, il 27,8% denuncia tensione e stanchezza, ma anche irritabilità (21,5%), ansia (19%), insonnia (14,2%) e dolori allo stomaco (12%). "Gli impiegati - sottolinea infine l'inchiesta – lamentano soprattutto una condizione generale di stanchezza (27%) e disturbi agli occhi e alla vista (27%), ampiamente legati all’utilizzo continuativo del computer.

(tratto da www.rassegna.it, 29 febbraio 2008)

Etichette: , , , ,


27.2.08

 

Tra la festa il rito e il silenzio... scegliamo la lotta!


Il 23 e 24 febbraio in più di 400, femministe e lesbiche, ci siamo incontrate a Roma per dare un seguito al percorso nazionale iniziato con la manifestazione del 24 novembre contro la violenza maschile sulle donne. (Comunicato Flat)

Due giorni in cui i nostri desideri, le nostre differenze e le nostre idee ed elaborazioni politiche si sono incontrate per dare sostanza all'affermazione della nostra autodeterminazione.

Abbiamo discusso insieme delle strategie di resistenza e trasformazione del mondo che abitiamo e delle pratiche che intendiamo agire per fermare la violenza maschile che si manifesta in varie forme: quella che avviene in famiglia, quella delle istituzioni e delle leggi che espropriano e controllano i nostri corpi, del sistema economico che precarizza le nostre esistenze, della cultura e della formazione che ci educa alla passività e alla subalternità, dell'eterosistema che costringe i nostri desideri e le nostre relazioni all'interno del modello unico dell'eterosessualità.

Abbiamo discusso di spazio pubblico, della sua presunta neutralità e della necessità di riappropriarci di tutti gli spazi con la nostra pratica collettiva e autodeterminata.

Abbiamo parlato dell'accesso e della riappropriazione da parte delle donne delle tecnologia e dei mezzi di comunicazione, tramite l'utilizzo del free-software.

Abbiamo parlato di razzismo, cercando di partire da noi per esplorare la complessità del rapporto con l'altra, anche alla luce dei nostri privilegi, sottolineando che non possiamo dirci autodeterminate se a tutte,e quindi anche alle donne migranti, non vengono garantiti quei diritti che rivendichiamo e riteniamo minimi per la nostra esistenza.

Il sommovimento femminista e lesbico ha espresso la necessità di altri momenti di confronto e discussione, nonchè di proseguire il percorso comune facendo vivere le nostre elaborazioni negli prossimi appuntamenti che verranno costruiti:
• un presidio il 4 marzo sotto il Tribunale di Bologna per un processo per stupro;
• un presidio il 5 marzo sotto la sede della Corte di cassazione a Roma per solidarietà alle donne che hanno denunciato per stupro un medico anestesista;
• presidio il 18 marzo a Perugia, sotto il tribunale dove si terrà l'udienza preliminare per l'uccisione di Barbara Cicioni da parte del marito;
• una manifestazione nazionale a maggio in una città del sud contro la violenza maschile nelle sue varie forme;
• due giorni di discussione nazionale forse nel mese di giugno;
• una campagna nazionale per l'autodeterminazione e la libertà delle donne e delle lesbiche che si articolerà attraverso le proposte discusse dai vari gruppi tematici e l'assemblea ha accolto la campagna "Obiettiamo gli obiettori", che ogni territorio sceglierà poi di articolare eventualmente come vuole.
• un 8 marzo autorganizzato da femministe e lesbiche a livello territoriale che rilanci la lotta per l'autodeterminazione, manifestando con lo striscione comune: «Tra la festa, il rito e il silenzio noi scegliamo la lotta!».

Esprimiamo un forte e chiaro no alla strumentalizzazione a fini elettorali dell'8 marzo da parte di cgil cisl e uil, organizzazioni che sostengono politiche familiste e di controllo sui corpi e a cui non deleghiamo l'espressione del nostro pensiero e delle nostre pratiche politiche.

Assemblea nazionale di femministe e lesbiche

Roma, 24 febbraio 2008

Etichette: , , ,


 

«La moratoria? Sull'obiezione»


Il ginecologo Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di bioetica: «Cambiare la legge 194» (Intervista)

«Una moratoria contro l'obiezione di coscienza dei medici alla legge 194». La normativa vigente sull'aborto non è intoccabile, per il ginecologo bolognese Carlo Flamigni, esponente del Comitato nazionale di bioetica. Anzi, andrebbe senz'altro modificata. Ma solo riguardo l'articolo 9, l'unico ormai obsoleto, attacca Flamigni: «Quando è stata varata la 194 l'obiezione di coscienza aveva un senso, ora non più». (Eleonora Martini)

È d'accordo con il documento dell'Ordine dei medici?

Certamente, finalmente un ragionamento basato sul buon senso. La legge 194 ha funzionato discretamente, malgrado gli obiettori di coscienza che hanno creato un problema serio: ha diminuito gli aborti e praticamente eliminato quelli clandestini.

Quindi la 194 non si tocca.

No, invece andrebbe modificata. Eliminando l'obiezione di coscienza.

Si spieghi meglio.

Quando venne scritta la legge 194, l'obiezione di coscienza era necessaria perché nei reparti di ginecologia lavoravano da tempo molti medici cattolici che non erano pronti ad accettare, secondo la loro morale, la pratica degli aborti. Ma oggi quando un medico sceglie, negli ospedali pubblici, i reparti di ginecologia sa che entra in un luogo dove si difende la salute della donna. E lo si fa anche interrompendo le gravidanze quando queste rappresentano un rischio per la salute, nel senso ampio imposto dall'Organizzazione mondiale della sanità. Il problema è che oggi c'è un enorme numero di medici obiettori e in gran parte dei casi la scelta non è dettata dalla convinzione personale ma dalla convenienza o dal pragmatismo. Questo grande numero ha fatto sì che le gravidanze vengano interrotte con un ritardo sempre maggiore e mettendo sempre più in pericolo la salute della donna. Non si può andare avanti così: vanno presi subito dei provvedimenti.

Come? Non si può mica costringere un medico a praticare aborti.

No, ma si può costringerli ad andare a fare un altro mestiere. Io non metterei mai un medico Testimone di Geova a fare trasfusioni, e lui non lo chiederebbe mai. Quindi non vedo perché non si possa pretendere da chi lavora nei reparti di ginecologia di occuparsi della salute della donna a 360 gradi e non solo fino ad un determinato punto. Se poi il medico dovesse cambiare idea solo successivamente, sarà lui stesso a dover chiedere di lasciare l'ospedale per occuparsi di altro, o di essere trasferito in altri reparti. Mi sembra che sia davvero arrivato il momento di chiederlo. Fino ad ora non avevo mai sollevato il problema perché mi sembrava ci fosse una pacificazione apparente che meritava di essere, per il momento, rispettata. Davanti a un'aggressione che è diventata una crociata, non vedo perché ci si debba trattenere ancora. In tempi di crociate ci si difende come si può, e questo mi sembra un modo giusto: mettere in evidenza quello che veramente non funziona della 194. Tutto il resto funziona benissimo e va lasciato com'è.

E per l'obiezione di coscienza usata a sproposito contro la pillola del giorno dopo?

In Italia è riconosciuta l'obiezione solo per il servizio militare, per la vivisezione, per la legge 40 e per la 194. Non certo per gli anticoncezionali. Oltretutto è appena stato pubblicato un bellissimo lavoro degli scienziati del Karolinska Institutet di Stoccolma che dimostra che la "pillola del giorno dopo" non inibisce l'impianto. E ora ci si aspetterebbero le scuse dei cattolici. Quando fu varata la legge 194 chiesi che i medici obiettori di coscienza usassero il tempo non dedicato alle interruzioni di gravidanza, alla prevenzione degli aborti, ad andare nelle scuole per fare educazione sessuale e ragionare sui concetti filosofici e sociali della prevenzione. Mi sembra che siano moralmente impegnati a farlo. Per questo io propongo una moratoria sull'obiezione di coscienza.

Un'altra moratoria? Ma che vuol dire?

Non lo so, perché non so cosa vuol dire fare una moratoria. Ma tant'è: si faccia una moratoria.

(il manifesto, 26.2.08)

Etichette: ,


 

Il velo, bavaglio alla lotta delle donne turche


Quiz tranello: «Siete a favore della libertà di istruzione delle donne che si velano?» Nuovi equilibri. La «liberazione» voluta dal blocco Akp-Mhp, formato col placet dell'esercito

Istanbul. Dai tempi di Marx sappiamo che il mondo religioso non è altro che il riflesso del mondo reale. L'onnipotente «Allah» del mondo religioso è l'uomo dominante, ricco e potente di questo mondo. Il velo non lega le donne a Allah, ma all'uomo. Il velo è l'annuncio più crudo e evidente del patriarcato come base delle relazioni di genere e della subordinazione delle donne agli uomini; è l'espressione dell'accettazione da parte delle donne di questa stessa subordinazione come valore supremo. (Ertugrul Kurkcu*)

La lotta secolare delle donne in Turchia per liberarsi da questa subordinazione, per trasformare la loro vita è oggi pesantemente sotto attacco da parte della santa alleanza delle «caserme-moschee-mercato-sette-lupi grigi». Per ironia della sorte l'ultimo passo di questa instancabile offensiva da parte del partito unico di governo del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, che etichetta la liberazione della donna come «adozione dell'immoralità dell'occidente», per togliere le donne dalle strade, dalla sfera pubblica, dai luoghi di lavoro e farle rientrare in casa, viene promossa con il nome di «libertà della donna». La reazione delle donne liberate di fronte ai tentativi del governo di eliminare il veto di indossare il velo nelle università dipende dal fatto che le donne, meglio di altri, hanno compreso il vero significato di questo partito della giustizia e dello sviluppo (Akp).

Presentare il velo, il simbolo della dominazione del maschio, come «libertà per le donne» è in realtà un classico esempio di strategia nella continua guerra psicologica. Non a caso la domanda posta è: «Siete a favore della libertà di istruzione per le donne che portano il velo?» Guardando al relativamente elevato numero di persone «sagge» che accettano di rispondere a questa sorta di «quiz legale» che prevede soltanto sì o no come risposta, bisogna dedurre che anche loro appartengono a qualche religione, la «religione della libertà». La paura del «peccare contro la libertà» li porta inevitabilmente nel gioco di potere dell'Akp. Ci sono altri che vedono questa questione come una situazione di «concedi per ottenere», il motto favorito di Erdogan. Se diciamo 'sì' all'eliminazione del divieto sul velo nelle università diranno 'sì' ad una maggiore libertà di espressione. Questo è il ragionamento.

Quella che ci viene posta non è una «domanda legale». Quella che ci viene posta è una «domanda storica»: il nuovo blocco Akp-Mhp, formato con il passivo consenso dell'esercito, rappresenta una soglia per la libertà? La lotta per permettere alle donne la «libertà di andare all'università con il velo» è una priorità nel programma dell'opposizione sociale?

E' evidente che il fronte nazionalista-laico in cui le forze armate turche hanno giocato un ruolo centrale prima delle elezioni generali è collassato con la vittoria schiacciante dell'Akp. E l'esercito agisce seguendo la sua priorità principale, cioè l'integrità territoriale, o in altre parole, eliminare la questione kurda. L'esercito, sotto la nuova spinta degli equilibri ha deciso di consolidare le sue «operazioni oltreconfine» in territorio iracheno con le «operazioni islamiche dell'Akp» nelle zone kurde in Turchia. Di fronte a una scelta difficile, l'esercito ha detto 'sì' al controllo islamico dell'Akp del sud est della Turchia per minare il sostegno popolare al Pkk. L'esercito ha dovuto lottare duramente per ottenere da Washington il consenso alle operazioni oltreconfine. La coalizione Akp-Mhp formata per l'eliminazione del bando sul velo nelle università riempie il vuoto politico lasciato dal collasso del fronte «nazionalista-laico» dopo l'abbandono delle forze armate. La delusione e la depressione espresse dal leader dell'opposizione Deniz Baykal del Chp riassume meglio di qualunque altra cosa le conseguenze di tale situazione, «ora non ci resta che il sistema giudiziario». Eppure le donne, le più sincere partecipanti delle oceaniche manifestazioni repubblicani della scorsa estate sono lì, nelle strade. Non sorprende vederle uscire nuovamente in strada. Mentre il velo ironicamente ottiene lo status di «simbolo della libertà». Le donne sono in piazza perché le politiche sociali, culturali e economiche dell'Akp mirano a spingere le donne, con o senza il velo, a casa, a fare figli e a obbedire agli uomini.

*Direttore di Bianet

(il manifesto, 26.2.08)

Etichette: , , , ,


26.2.08

 

Donne a confronto su violenza in famiglia e precarietà


In trecento a Roma per l'incontro di Flat, Femministe e lesbiche ai tavoli. Oggi [domenica 24/2] l'assemblea nazionale all'Università Valdese (Marina Zenobio)

Da Trieste a Palermo, in treno o auto, sono arrivate in più di 300, ieri a Roma, alla Casa internazionale della donna, rispondendo all'invito di Flat - Femministe e lesbiche ai tavoli -, due giorni di analisi e confronto sulla violenza contro le donne, organizzati dalla rete nazionale «Sommosse».

Associazioni e collettivi di femministe e lesbiche si sono divisi i tavoli di discussione, a partire da quello sulla violenza introdotto da «Donne in genere» Roma, «Giurist@ democrati@-rete femminista» e «Quelle che con ci stanno» di Bologna. Un momento di condivisione di pratiche e metodologie di intervento per contrastare la violenza maschile, con particolare riguardo a quella domestica o, per essere più precise, quella che si consuma in famiglia, all'interno di quello che nell'immaginario è considerato il luogo privilegiato dell'amore. E qualcuna ricorda che fino al 1981 da noi esisteva il delitto d'onore. La pausa pranzo è un momento colorato per fare conoscenze. Valentina, 23 anni, fa parte del Collettivo «Malefimmine» di Palermo, segue il tavolo sull'autodeterminazione, legge 40 e attacco alla 194. «Non viviamo slegate dalle contraddizioni della nostra terra, dove la lotta per un aborto assistito libero e gratuito è rivoluzionaria. Da noi la pratica delle obiezioni di coscienza è molto diffusa. Al Santa Sofia l'unico reparto che praticava le interruzioni è stato chiuso per ristrutturazione e mai riaperto. Le donne di Agrigento devono andare in altre città e - denuncia - ad una ginecologa che prescriveva la pillola del giorno dopo qualcuno ha manomesso i freni dell'auto». Da Flat Valentina si aspetta continuità, contenuti forti e grandi campagne che sappiano coinvolgere tutta la penisola, e anche le isole, contro l'attacco alla 194.

In un «non perdiamoci di vista» spera anche Livia, 30 anni, al tavolo su lavoro e precarietà che si chiede che cosa sia il welfare in Italia se non la «famiglia» che andrebbe sì tutelata, ma solo se rientra nella « normalità». A questo tavolo partecipano molte operatrici di call center, tra cui Michela che risponde per l'Alitalia, con contratti a termine rinnovati da 7 anni. Entusiasta del suo tavolo, violenza dell'eterosistema, è Anita, 61 anni, del «Gruppo soggettività lesbica» di Milano. In questa sede ha trovato un luogo di riflessione su femminismo e lesbismo, e ripreso la critica ai movimenti gay e femministi rispetto la loro richiesta di riconoscimento come coppia, quindi come famiglia. «Non mi aspettavo - dice Anita - un livello così alto di discussione e di capacità di interloquire tra generazioni». E' una «Mela di Eva» Stella, romana di 25 anni al tavolo comunicazione. «Bel momento di incontro con altre realtà, le loro esperienze e pratiche, perché ogni territorio calibra il proprio intervento in base alla realtà che ha intorno, uno scambio complessivo da cui non si può prescindere».

Resta virtuale, per ora, il tavolo sul razzismo come nodo da districare, e sul blog di Flat (flat.noblogs.org) si possono leggere i consigli per una femminista (lesbica) bianca e italiana la prima volta che incontra una donna nera, ebrea, immigrata, rifugiata del Terzo Mondo. Critica femminista alle culture patriarcali, con particolare riferimento ad educazione e formazione, al tavolo sul sessismo, che ha dibattuto anche le possibilità di costruzione di una cultura altra. Femminismo e spazio pubblico, introdotto da «Quaderni Viola» e «Collettivo Porta Nuova» di Milano, è il tavolo che si chiede quali siano le possibilità per le donne di occupare efficacemente uno spazio pubblico.

L'evento si concluderà oggi [domenica 24/2] all'Università Valdese, via Pietro Cossa, con un'assemblea nazionale (inizio ore 10), nel corso della quale verranno presentate le relazioni messe appunto ieri dai gruppi di lavoro, per poi lasciare il microfono aperto a tutte le donne che parteciperanno singolarmente.

(il manifesto, 24.2.08)

Etichette: , , ,


25.2.08

 

"Sommosse" a Roma, due giorni di dibattito


Parte questa mattina a Roma la mini maratona di Flat -Femministe e lesbiche ai tavoli -, due giorni di analisi e dibattiti sulla violenza contro le donne organizzati dalla Rete nazionale «Sommosse». (Marina Zenobbio)

Il primo appuntamento, quello odierno, è alle 10 alla Casa internazionale delle donne. Qui, collettivi e associazioni arrivate da tutta Italia si divideranno in 6 tavoli di discussione per un momento di confronto sulle analisi, le pratiche e le prospettive di lotta in relazione ad aspetti particolari della violenza contro le donne, quella subita all'interno delle mura domestiche; la violenza delle istituzioni e delle leggi attraverso il controllo sui corpi (legge 40 e attacchi alla 194); dei media, quindi riappropriazione di linguaggi e strumenti; la violenza del sistema economico (leggi precarietà del lavoro); quella insita nell'educazione sessista e la violenza dell'eterosistema.

L'evento si concluderà domani all'Università Valdese in via Pietro Cossa con un'assemblea nazionale (inizio ore 10) nel corso della quale verranno presentate le relazioni messe a punto oggi dai gruppi di lavoro, per poi lasciare il microfono aperto a tutte le donne che parteciperanno singolarmente.

L'obiettivo di Flat è dare continuità - dopo la grande manifestazione del 24 novembre contro la violenza maschile - al protagonismo politico delle donne, riaffermando il principio dell'autodeterminazione sui corpi e sulle vite delle donne e per lanciare, tutte insieme, «una campagna permanente di lotta contro tutti i tentativi di limitare la nostra libertà ed autonomia costruendo, per il prossimo 8 marzo, iniziative in ogni città». Un evento nel quale le organizzatrici sperano fortemente di scambiare conoscenze e condivisione delle pratiche e delle strategie di azione. Per facilitare la restituzione della complessità e della coralità degli interventi dal blog di Flat (flat.noblogs.org) il «sommovimento» femminista e lesbico invita le partecipanti ad esprimersi il più possibile in interventi unici, richiamando quindi ad un senso di responsabilità verso l'assemblea da parte di tutte quelle realtà che sono più o meno interne a partiti, sindacati o movimenti politici strutturati nazionalmente.

(il manifesto, 23.2.08)

Etichette: , , ,


21.2.08

 

E ora l'arcivescovo di Parigi chiede uno «statuto dell'embrione»


La richiesta dopo una sentenza della Cassazione. E Sarkozy riapre le porte alla religione nella vita pubblica. Mettendo in discussione la legge del 1905 (Anna Maria Merlo)

Alla riunione dei vescovi che si tiene a Rennes, l'arcivescovo di Parigi, monsignor Vingt-Trois, ha chiesto che venga definito uno «statuto dell'embrione». Il prelato approfitta della situazione creata dalla recente sentenza di Cassazione (il manifesto, 13 febbraio) che, rispondendo favorevolmente alla domanda di tre famiglie, ha stabilito che è possibile dichiarare allo stato civile, cioè dare un nome e considerare come una persona, un feto nato morto, qualunque sia lo stadio del suo sviluppo. Questa sentenza può fare giurisprudenza, mentre finora in Francia, in seguito a una norma del '93 e a una circolare del 2001, vigeva il criterio dell'Organizzazione mondiale della sanità, cioè un feto deve pesare almeno 500 grammi e la gravidanza deve durare almeno da 22 settimane per essere considerato un «bambino nato morto». La sentenza di Cassazione ha sollevato inquietudine, perché può essere utilizzata per rimettere in questione il diritto all'interruzione volontaria di gravidanza. E, puntualmente, è quello che sta succedendo: l'arcivescovo, anche se con finta ingenuità ha affermato di non voler far riferimento all'aborto, ha però sottolineato che in Francia «l'aborto non è legale, ma è stato soltanto depenalizzato» dalle legge Veil del '75.

L'inquietudine è forte, poiché il presidente Nicolas Sarkozy sembra voler riaprire la questione del posto della religione nella repubblica. C'è stato il discorso fatto in Vaticano, prima di Natale, dove ha affermato che, per l'educazione dei bambini, «il maestro non potrà mai sostituire il parroco o il pastore». Poi il presidente ha citato dio ben 13 volte in Arabia saudita, di fronte a un regime che fa riferimento a una tendenza estremista dell'islam, i wahabiti. Dove vuole arrivare Sarkozy? si chiedono inquieti i laici in Francia. Nel libro che aveva pubblicato nel 2004, sulla questione religiosa, Sarko affermava di voler voltare pagina rispetto alla situazione del passato, fondata dalla legge di separazione dello stato dalle chiese del 1905. Più volte ha parlato di «spolverare» questa legge, di «attualizzarla». Quando era ministro degli interni (e dei culti), ha svolto un ruolo importante per la creazione del Consiglio francese del culto musulmano, un'istanza rappresentativa dell'islam in Francia. L'obiettivo di Sarkozy sembra essere una revisione della legge del 1905, per permettere agli enti locali di finanziare la costruzione di luoghi di culto (è una richiesta dei musulmani, che ne hanno meno, hanno pochi soldi e sono quindi obbligati a rivolgersi all'estero per i finanziamenti).

Negli ultimi giorni, l'Eliseo ha un po' frenato le voci sulla revisione della legge del 1905, perché l'inquietudine cresce in un paese fortemente segnato da cent'anni di sanguinose guerre di religione e dove toccare quella legge è equiparato a una vera e propria dichiarazione di guerra. Ma Sarkozy è circondato da cattolici praticanti all'Eliseo. La sua direttrice di gabinetto, Emmanuelle Mignon - tra l'altro all'origine della controversa proposta di far «adottare» un bambino ebreo deportato da ogni allievo di quinta elementare - è ex allieva dei gesuiti ed è capo scout. Inoltre, il presidente francese guarda ai neo-con Usa come modello ideologico.

(il manifesto, 20.2.08)

Etichette: ,


19.2.08

 

Aborto in Polonia, legge contro le donne



«Difesa della vita» a oltranza In vigore dal 1993 si chiama «Legge per la protezione dell'embrione umano». Per una norma tra le più restrittive al mondo nel paese si praticano dalle 180 alle 220mila interruzioni di gravidanza clandestine ogni anno. Numeri che non tengono conto della situazione nelle campagne, dove la povertà costringe a ricorrere alle mammane La Chiesa domina e nessun partito osa opporsi a una legge che fa strage di donne. Le strutture sanitarie spesso rifiutano di effettuare persino l'aborto terapeutico, anche perché i medici temono per la propria carriera e si appellano all'obiezione. (Mauro Caterina)

Karina Kozic, 21 anni, viveva in un piccolo centro nel Voivodato della Grande Polonia, nella parte occidentale del Paese. Nel marzo del 2005 pratica un aborto clandestino in un appartamento privato di un ginecologo, nella cittadina di Swarzedz. Subito dopo l'intervento ha un'emorragia e viene trasportata con un'ambulanza all'ospedale di Poznan, dove muore.Basia ha 25 anni quando rimane incinta. Ha completato da poco gli studi in legge e col fidanzato hanno deciso di comprare casa e vivere insieme. Improvvisamente inizia ad accusare dei forti dolori all'addome. All'ospedale di Pila il medico le diagnostica un'ulcera all'intestino. Viene ricoverata nel reparto di gastroenterologia dell'ospedale di Poznan. «La priorità dei medici - racconta la madre - era quella di salvare a tutti i costi la gravidanza». «Mia figlia gridava e piangeva per i dolori atroci che comunque sopportava». Tre settimane di cure a base di paracetamolo e Basia viene dimessa dall'ospedale. Trascorsa una settimana a casa, ritornano i dolori. Viene nuovamente ricoverata in ospedale: ascesso interno. La ragazza viene operata e rilasciata con la ferita ancora non del tutto rimarginata. Passano due giorni e i dolori all'addome diventano acuti. L'ambulanza la riporta per l'ennesima volta in ospedale. I medici dicono alla madre di Basia che sua figlia «pensa troppo a se stessa e poco alla gravidanza». Per tutta risposta, lei decide di portare Basia in un altro ospedale, dove le viene diagnosticato un altro ascesso ed una fistola. Era necessario effettuare un'endoscopia per scoprire il problema ed individuare l'infezione. Ma quel tipo di esame poteva avere dei rischi e compromettere la gravidanza. Il dottor Jaroslaw Cywinski si rifiuta di effettuare l'esame: «La mia coscienza non lo permette», si giustifica. Pochi giorni dopo la ragazza finisce sotto i ferri in sala operatoria. Perde il bambino. Subisce altri interventi nel tentativo di fermare le emorragie. Basia muore il 29 settembre del 2004. La professoressa Gazyna Rydzewska è un'esperta gastroenterologa polacca: «In questo caso bisognava fare l'esame endoscopico. Non vi era la sicurezza di poter salvare la gravidanza, ma era un rischio che si doveva correre». Il dottor Cywinski è stato indagato per omicidio colposo. E' ancora sotto inchiesta.

Karina e Basia sono due delle tante, tantissime donne, troppe, che in Polonia perdono la vita a causa di una legge ideologica e conservatrice: la «Legge per la protezione dell'embrione umano». Entrata in vigore il 7 febbraio del 1993, quella polacca è una delle leggi più restrittive al mondo riguardo all'aborto. L'interruzione legale della gravidanza è prevista solamente in tre casi: nel caso in cui la gravidanza rappresenta una seria minaccia alla vita o alla salute della donna (ciò deve essere accertato da un medico oltre che dal ginecologo che dovrebbe operare); nel caso in cui un esame prenatale evidenzi gravi malformazioni del feto; nel caso in cui la gravidanza sia stata procurata da uno stupro (deve essere un magistrato ad accertare il fatto). Per i dottori che praticano l'aborto al di fuori della legge è prevista una condanna dai 3 ai 5 anni di detenzione.

Ogni anno si calcola che in Polonia vengono praticati dai 180.000 ai 220.000 aborti clandestini. Numeri che però non tengono conto di quello che succede nelle campagne. «Chi ha i soldi vola all'estero - ci dice Katarzyna Gajewska - oppure trova un ginecologo compiacente che mette a disposizione il suo studio privato, per un costo che si aggira intorno ai mille dollari». Katarzyna è una dirigente attivista di «Konsola», associazione femminile con sede nella città di Poznan che promuove il dibattito per una legge sull'aborto liberale e si batte per i diritti delle donne polacche. «Il vero dramma è nelle campagne». "Lì - continua - non ci si può permettere un ginecologo e allora si ricorre alle mammane». Una strage silenziosa della quale non si conoscono i numeri. I decessi, infatti, non vengono registrati dagli ospedali sotto la denominazione di «aborto clandestino».

Abbiamo provato a fare un giro negli ospedali di Varsavia e di Poznan, cercando di parlare dell'argomento scottante con dottori e gli infermieri in servizio. «No comment» è l'atteggiamento generale. Un'infermiera a Varsavia ha tagliato corto dicendo che «in questo ospedale siamo contro l'aborto, non ci interessa altro». Ed è proprio da queste parole che viene fuori una realtà imbarazzante e paradossale. Pur avendo una donna i requisiti di legge necessari per poter chiedere l'interruzione legale della gravidanza, ciò viene sistematicamente ignorato dalla maggior parte delle strutture sanitarie nazionali. L'aborto terapeutico viene percepito come un crimine dal mondo medico ed un serio ostacolo alla carriera, salvo poi, per molti di loro, spartirsi senza rimorsi di coscienza il ghiotto mercato degli aborti clandestini. Non è affatto difficile trovare un medico disposto a praticare clandestinamente l'aborto. Come? Il passa parola, prima di tutto, oppure inserzioni pubblicitarie nei giornali locali dove si promette «il ritorno delle mestruazioni». Tutti lo sanno e tutti fanno finta di non sapere. Ma è sempre così? E' possibile che in Polonia non vi sia nessuno medico che abbia il coraggio di alzare la voce contro il mercimonio della salute di una donna, e contro una legge che mostra tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni?

Un caso che ha fatto molto discutere e acceso il dibattito anche all'interno dell'ambito medico è stato quello della dottoressa Malgorzata, ginecologa con alle spalle una lunga carriera. L'11 gennaio del 2008 il maggiore quotidiano polacco, Gazeta Wyborcza, porta a conoscenza dell'opinione pubblica l'arresto di un medico ginecologo nella cittadina di Zyrardow. Si tratta della dottoressa Margolzata, appunto, accusata di aver effettuato 26 aborti illegalmente. A denunciarla alla polizia è stata una sua paziente di 26 anni. Secondo quanto riportato nella denuncia, la ragazza, dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, ha cercato in tutti i modi di trovare qualcuno che le praticasse l'aborto. Il padre del bambino l'aveva abbandonata e lei si trovava da sola e con altri due bambini malati da crescere con uno stipendio di 900 zloty al mese (circa 250 euro). Era disperata. Dopo una serie di rifiuti da parte di altri ginecologi, a cui aveva proposto di pagare il compenso di 2.500 zloty a rate, la donna si rivolge alla dottoressa Malgorzata, la quale le chiede il motivo di quella decisione e tenta di dissuaderla, senza riuscirci. La 26enne quel giorno paga solo 200 zloty. Il giorno dopo, però, sporge denuncia alla polizia. La ginecologa si dichiara colpevole. Tutte le altre donne a cui ha praticato l'aborto hanno testimoniato in suo favore, dicendo che prima di procedere la dottoressa aveva fatto di tutto per dissuaderle. «Sì sono colpevole - ha detto la ginecologa - ma l'ho fatto secondo la mia coscienza». «Ho praticato l'aborto solo in quei casi in cui la gravidanza rappresentava un alto rischio per la vita delle mie pazienti, o nel caso in cui esse erano in difficoltà economiche ed erano determinate a farlo». La dottoressa Malgozata ha chiesto volontariamente di essere condannata alla pena prevista dalla legge e al pagamento di 15.000 zloty.

Quanto alla politica, in Polonia non si muove foglia sull'argomento a meno che non sia la Chiesa a parlarne. Nessuno dei partiti dell'arco costituzionale vuole prendere una posizione contraria nei confronti della legge attuale. Una sudditanza che schiaccia l'autonomia della politica dalla religione e costringe le donne all'umiliazione e alla gogna sociale. Quando, se e come cambieranno le cose da queste parti, per adesso non è dato saperlo. L'associazione che più di tutte si sta battendo per i diritti delle donne in Polonia e il cambiamento della «legge per la protezione dell'embrione umano» è la Federazione Polacca per le Donne. Sono molte le battaglie portate avanti, ma quella più importante da combattere è contro l'indifferenza.

(il manifesto, 17.2.08)

Etichette: ,


17.2.08

 

Anche in Spagna la crociata anti-aborto


Donne denunciate dalla polizia, ispezioni alle cliniche, antiabortisti d'assalto. E il Partito popolare scatena una campagna preelettorale, sostenuto dai vescovi (A.D'A.)

«Tutti hanno visto quelle scene terribili di bambini al settimo mese di gestazione finiti nel tritacarne». Le parole, di pesante accusa, sono di Ana Botella, assessore comunale a Madrid per il Partido Popular, ma anche e soprattutto moglie di José Maria Aznar. Le «scene terribili» pare che le abbia viste solo lei, ma poco importa, tutto fa brodo, anche in Spagna, pur di sostenere la battaglia contro l'interruzione volontaria della gravidanza. A maggior ragione ora che si avvicinano a larghe falcate le elezioni generali, fissate per il 9 marzo, e anche la Chiesa è scesa in campo. Ana Botella, in odore di appartenenza ai Legionari di Cristo, è il politico che con più enfasi e determinazione ha lanciato la crociata anti-abortista, seguita a ruota da Radio Cope, la potentissima emittente di proprietà della Conferenza episcopale spagnola. La cupola del Pp per ora tace.

L'aborto in Spagna esiste dal 1985, o meglio dal 1985 esiste una legge che lo depenalizza, ma solo in tre casi: violenza, malformazione del feto e per evitare un grave pericolo per la salute fisica e psichica della madre. Si tratta di una legge restrittiva, ma anche assai ambigua, tanto che l'aborto viene praticato con una certa facilità nelle cliniche private mentre è praticamente impossibile realizzarlo negli ospedali pubblici (solo il 2% viene realizzato nelle strutture pubbliche). La polemica in Spagna è ripartita a dicembre, quando veniva scoperta a Barcellona una rete di cliniche (con ramificazione anche a Madrid) che si sarebbero dedicate agli aborti illegali, ossia dopo la 22esima settimana di gestazione. Giusto l'altro ieri ha testimoniato di fronte al giudice il ginecologo di origine peruviana Carlos Morin, considerato il cervello di questa trama.

Al di là delle responsabilità e delle irregolarità che emergeranno delle indagini (gli elementi contro Morin pare che non manchino), la notizia ha rinvigorito gli animi della destra più conservatrice, che si è lanciata, secondo il personale di diverse cliniche di Madrid, in una vera e propria «caccia alle streghe», facendo di tutta l'erba un fascio. Proprio nella Capitale il clima è il più teso, sia per l'attivismo da strada dei gruppi pro-vita che per quello politico di Ana Botella e di Esperanza Aguirre, presidente popolare della regione e vera e propria dama di ferro del Pp. La sanità, tra l'altro, viene gestita dalle regioni. E così, forse casualmente, da dicembre sono aumentate in maniera esponenziale le ispezioni, due cliniche sono state chiuse per irregolarità amministrative e medici e personale sanitario sono stati addirittura aggrediti. Un clima di intimidazione che a gennaio ha portato ad una settimana di scioperi degli aborti.

I problemi non finiscono qui. Sulla base di diverse accuse presentate da organizzazioni antiabortiste, numerose donne sono state chiamate a giudizio, accusate di aver praticato aborti illegali. In pratica un panorama molto simile a quello napoletano, con metodi, anche in questo caso, poco ortodossi da parte delle forze dell'ordine. Carolina, una giovane di 19 anni chiamata a testimoniare proprio nel caso Morin, ha dichiarato a El Pais che la polizia l'ha minacciata, invitandola a parlare contro il medico che l'ha operata: «Se non dichiari penseremo che nascondi qualcosa». Ancora oggi non sa se quando verrà chiamata di fronte al giudice lo farà come testimone o come imputata.

(il manifesto, 16.2.08)

Etichette: ,


 

La madre, il feto, il ginecologo


Dopo le polemiche, innescate da Formigoni, circa i limiti da imporre all'aborto terapeutico sulla base delle nuove possibilità di sopravvivenza al di fuori del grembo materno, e dopo l'uscita di un gruppo di ginecologi romani sullo stesso tema, si precisa il quadro dell'offensiva integralista: diretta non solo e non tanto contro la legge sull'interruzione di gravidanza, quanto, più alla radice, contro la centralità del «corpo pensante» della madre nella procreazione: reinquadrando la scena della nascita alla luce dei progressi tecnologici. (Grazia Zuffa*)

Partiamo da come sono presentati i «fatti» scientifici e le conseguenti ricadute. I progressi nel campo delle cure neonatali sono stati così straordinari che fino dalla ventiduesima settimana di gravidanza i feti sarebbero in grado di vivere: dunque va messo in discussione l'aborto oltre i tre mesi, che si configura come soppressione di un bambino. L'abbassamento dei limiti di sopravvivenza al di fuori dell'utero è un dato inoppugnabile che testimonia lo sviluppo tecnologico, ma può essere analizzato da molti punti di vista e ha molteplici risvolti di carattere etico: come si evince dal confronto da tempo in corso fra i pediatri e i neonatologi sulle cure da fornire ai bambini nati molto prematuri, il cui numero pare in crescita. Una problematica, come si vedrà, assai diversa dall'interruzione volontaria di gravidanza. Dunque, c'è innanzitutto da chiedersi perché proprio il conflitto con la 194 emerga come «il problema etico», vista l'eccezionalità dell'aborto negli stadi più avanzati di gravidanza, che la legge ma soprattutto le donne ben tengono presente.

L'aborto è destinato a balzare in primo piano solo seguendo una precisa e univoca lettura simbolica dell'evento tecnologico: i feti che un tempo erano destinati a rimanere «non nati» al di fuori del corpo materno, adesso «nascono» grazie alle tecnologie neonatali. Il feto è sempre più un «soggetto» autonomo: suo alleato è il medico, che lo salva (è proprio il caso di dirlo), dalla natura matrigna e dalla madre nemica (la madre assassina della moratoria sull'aborto). Questo il senso dell'appello di quei ginecologi che avocano a sé soli il diritto/dovere di rianimarlo, contro la madre. In tal modo il medico gioca un ruolo di autorità morale, oltre che tecnica. O meglio, le due cose sono connesse: le tecnologie al servizio della «sacralità della vita» sono anch'esse sacralizzate, col medico nelle vesti di officiante.

Soffermiamoci sulla assolutizzazione/sacralizzazione delle tecnologie: non una parola è spesa nel merito dell'ambivalenza delle tecniche, nel caso specifico le tecniche di rianimazione neonatale. Non una parola è spesa sul carattere straordinario (e straordinariamente gravoso) delle cure intensive cui si vorrebbe sottoporre di regola i feti e/o i prematuri di ventidue settimane. Eppure proprio questo è il punto da cui è partita qualche anno fa la riflessione di molti pediatri, sfociata in un documento, chiamato Carta di Firenze, da qualche tempo all'attenzione anche del Comitato nazionale di bioetica. Basti leggere il preambolo: le riflessioni della Carta sono «ispirate alla necessità di garantire alla madre e al neonato adeguata assistenza, col fine unico di evitare loro cure inutili, dolorose e inefficaci, configurabili con l'accanimento terapeutico». Dunque i dubbi (dei cultori laici della medicina e non dei gran sacerdoti) sorgono non dalla preoccupazione di un deficit di cure, ma al contrario di un possibile eccesso: ad uno stadio di maturazione in cui mancano le evidenze di efficacia degli interventi. In particolare, si ribadisce che al di sotto della 23ma settimana non esiste (allo stato attuale) possibilità di sopravvivenza al di fuori del corpo materno salvo casi del tutto eccezionali; al di sopra delle 25 settimane è possibile la sopravvivenza pur dipendente da cure intensive. Rimane dunque da valutare la fascia delle 23/24 settimane- dice la Carta- su come e quando applicare le cure definite straordinarie per evitare che si configurino come cure sproporzionate.

Per chiarire la delicatezza umana di questa valutazione basti pensare all'invasività di queste cure straordinarie, a fronte non solo di bassissime probabilità e durata di sopravvivenza, ma anche di danni iatrogeni gravi e irriversibili: pratiche quali l'intubazione tracheale e il massaggio cardiaco esterno possono provocare, oltre a sofferenze certe, la lacerazione della trachea, lo pneumotorace e altro, data l'estrema vulnerabilità di questi piccolissimi. I rischi sono aumentati dalla casistica estremamente esigua a quello stadio di età e dunque dall'esperienza assai limitata dei medici.

Da qui l'insistenza della Carta nel coinvolgere i genitori nella decisione se intraprendere o meno le cure straordinarie al di sotto delle 25 settimane. Può sembrare un'indicazione ovvia, a partire dal riconoscimento della responsabilità genitoriale e dal rispetto degli affetti dei soggetti coinvolti: ma questo è il punto principale di scontro, con chi vorrebbe lasciare al solo medico la scelta. Eppure, proprio perché il sapere tecnico vacilla (mancano le evidenze circa l'appropriatezza delle cure mediche da prestare) e la valutazione dei costi/benefici è particolarmente dubbia e dolorosa, proprio per questo i medici dovrebbero temere la solitudine. Per alcuni è così, come la Carta mostra. Per altri no: come se dall'imperativo assoluto di schierarsi a favore della Vita discendesse un potere assoluto delle tecniche e del medico chiamato ad applicarle. Un potere che non vuol vedere i limiti e le contraddizioni delle tecniche di cui dispone, che volta il capo davanti alle nuove sofferenze che possono arrecare. In questa luce, le problematiche dell'inizio vita appaiono del tutto simili a quelle del fine vita; così come le posizioni etiche in campo.

Torniamo alla polemica intorno alla 194 o meglio alla rappresentazione delle tecnologie salvifiche contro la madre mortifera. L'irruzione delle tecniche sulla scena della procreazione non è cosa nuova e neppure il loro utilizzo simbolico contro le donne. Barbara Duden ha mostrato come le tecnologie della gravidanza, rendendo trasparente il corpo femminile, siano un potente veicolo della rappresentazione del feto «autonomo» e del degrado della madre ridotta a puro ambiente di vita. In un crescendo, le tecnologie della riproduzione hanno «creato» l'embrione in provetta, al di fuori del corpo materno. Oggi quel corpo viene mostrato come sempre meno necessario: ridotti i tempi dell'opera materna, ridotta la funzione, negata la parola. Sempre più la madre è un grembo di transito. L'antico sogno maschile del controllo completo della procreazione sembra più vicino a realizzarsi. Di questo dovremmo discutere, uomini e donne. (*membro del Comitato nazionale di bioetica)

(il manifesto, 9.2.08)

Etichette: , , ,


15.2.08

 

Aborto, le donne in piazza


Forte risposta al blitz di Napoli

Donne in piazza in tutta Italia: a Napoli, Milano, Roma, Bologna, Brescia, Venezia, Palermo, ecc. sit-in e cortei in difesa della legge 194 e per protestare contro il blitz della polizia al Policlinico Federico II di Napoli per una presunta interruzione di gravidanza illegale. E' stata la giornata della protesta, sfociata in certi casi anche in momenti di tensione. Come nella capitale, quando centinaia di manifestanti hanno sfondato lo schieramento delle forze dell'ordine per dirigersi verso il centro storico. Non sono mancati slogan e striscioni contro Giuliano Ferrara.

Tensione a Roma. Nella capitale gli incidenti sono iniziati quando le donne, riunite sotto il ministero della Salute per un sit-in, hanno forzato il blocco della polizia per dirigersi dal Lungotevere verso piazza Argentina. Lì si sono avuti i momenti più forti di tensione, con il fermo di una donna e il traffico bloccato da parte delle manifestanti. La strada è stata liberata quando la giovane fermata è stata rilasciata. Franca Rame ha invitato le donne a liberare la strada e, come atto pacificatore, ha baciato sulle guance un dirigente del commissariato di polizia. La manifestazione, alla quale - seecondo gli organizzatori - hanno partecipato quattromila persone, è poi proseguita in modo pacifico.

La protesta a Napoli. Alcune centinaia di donne hanno partecipato alla manifestazione indetta dall'Udi. Piazza Vanvitelli, nel quartiere del Vomero, è stata occupata da gruppi di donne dei partiti di sinistra e di movimenti femministi. Cartelli e slogan contro il Vaticano, contro Papa Ratzinger e contro Giuliano Ferrara, definito "il talebano italiano".

Corteo spontaneo a Bologna. E' nato come un presidio, davanti al reparto di ginecologia del policlinico Sant'Orsola-Malpighi, è diventato un blocco del traffico e poi un corteo di diverse centinaia di persone che, partito da fuori le mura del centro storico, ha raggiunto piazza Maggiore. La protesta ha coinvolto donne e uomini di tutte le età: tanti i cartelli e gli slogan, è ricomparso anche lo storico "Tremate tremate / le streghe son tornate", o "La 194 non si tocca / la difenderemo con la lotta". Anche qui cori contro Giuliano Ferrara e contro l'arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra. Iniziato con alcune centinaia di persone, il corteo ha superato il migliaio di partecipanti.

Anche a Milano erano centinaia le donne, con parecchi uomini, scesi in piazza. Forte e sentita protesta si è tenuta davanti alla clinica Mangiagalli, vicino al Policlinico. Protagoniste dell'iniziativa sono stati i circoli femministi Mai Stat@ Zitt@, Donna proletaria, Mfpr. Presidio anche in piazza San Babila di Usciamo dal silenzio, Udi, Rete regionale lombarda.

Questo l'elenco delle manifestazioni indette per il 14 febbraio:
Bologna - ore 17.00 - al Sant'Orsola - presidio
Brescia - ore 18.30 - davanti agli Spedali Civili - presidio
Milano - ore 18.00 - presidio in Via della Commenda,12 - clinica Mangiagalli + San Babila
Napoli - ore 17.00 - Piazza Vanvitelli
Palermo - ore 17.00 - Istituto Gramsci - Cantieri Culturali della Zisa - riunione Coordinamento Donne 194
Roma - ore 17.00 - davanti al Ministero della Sanità - Lungotevere Ripa, 1 - sit in
Torino - ore 17.30 - Palazzo Nuovo - auletta 'Unilotta' Primo piano - riunione Coordinamento Donne torinesi/piemontesi
Venezia - ore 15.30 - presidio davanti all'ex ospedale G. B. Giustinian, Dorsoduro 1454 (Fondamenta Ognissanti) sede attuale del consultorio

(alcune notizie tratte da Repubblica.it, 14 febbraio 2008)

Etichette: ,


13.2.08

 

Il "ruggito della leonessa" spaventa la feccia della società borghese


L'omicidio secondo l'articolo 575 del vigente codice penale consiste nel cagionare "la morte di un uomo". L'art. 578 punisce "La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto..."[1].

Pertanto, le leggi penali vigenti prevedono l'omicidio vero e proprio nel senso della morte procurata di un uomo, cioè di una persona (maschio o femmina) già venuta al mondo, da quando è uscita dalla sfera (riproduttiva) materna in poi; oppure di un neonato appena partorito, fino al caso estremo di un feto durante il parto (naturale)[2].

Quindi, non è considerato, e non è (mai stato, neppure dal Codice fascista), omicidio l'aborto, neppure negli ultimi giorni della gravidanza, purchè precedenti le doglie.

Allora, la canea reazionaria sollevata (guarda caso poco dopo la grande manifestazione delle donne a Roma contro la violenza maschile del 24/11/07) sulla "moratoria dell'aborto", l'"aborto come omicidio", protocolli restrittivi per l'aborto terapeutico, fino all'aborto sotto stretto controllo poliziesco (Napoli, II Policlinico, 11/2/08, v. post), costituiscono l'escalation di una campagna di intimidazione e di terrorismo patriarcale-clericale-statale contro il "ruggito della leonessa", cioè contro il nascente, nuovo, movimento di lotta femminile contro il patriarcato, il capitalismo e lo stato.

Riuscirà questa campagna a fermare le "nuove femministe"? O le costringerà a mobilitarsi, ad organizzarsi, affinando la propria critica al sistema, ed a rafforzarsi ancor più?
---------------------

[1] Per l'art.19 della Legge 194/1978: "Chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila. Se l'interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l'accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell'articolo 6 o comunque senza l'osservanza delle modalità previste dall'articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi. Quando l'interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l'osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile."

[2] La Corte Costituzionale, con sentenza n.27 del 1975, aveva affermato che "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare". Questa considerazione non contrasta con l'altra affermazione: "Ritiene la Corte che la tutela del concepito - che già viene in rilievo nel diritto civile (artt. 320, 339, 687 c.c.) - abbia fondamento costituzionale. L'art. 31, secondo comma, della Costituzione impone espressamente la "protezione della maternità" e, più in generale, l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito". Il tutto va, infatti, inquadrato nel contesto dell'art.1 del Codice civile: "La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all'evento della nascita".

Etichette: , , , ,


12.2.08

 

La donna che abortisce è una criminale!


Ieri pomeriggio super blitz al nuovo policlinico di Napoli nel reparto di ostetricia. (Riceviamo i due comunicati e pubblichiamo)

Una bomba a forma di pancione? no. Camorristi con la cuffia da infermier@? no. Una scena di RIS, carabinieri, la squadra o scuola di polizia? nemmeno. Sette uomini in divisa hanno fatto irruzione ieri pomeriggio al nuovo policlinico per "indagare" su un interruzione di gravidanza di un feto malformato.

I paladini del /Sacro Embrione/ cercavano un'irregolarità nella procedura di aborto, segnalata, dicono, da una telefonata anonima.

Evidentemente il movimento per la vita sta studiando nuove forme di pressione psicologica, giocando anche sulla leggendaria arguzia delle nostre forze dell'ordine, sempre capaci di fiutare un vero reato! Infatti si trattava di una folle bufala... La donna è stata spaventata, interrogata , messa sotto pressione dopo soli 20 minuti dall'aborto e con lei anche la sua vicina di letto.

Criminalizzate entrambe in un momento così delicato. Di cosa altro ci accuseranno? Cospirazione alla vita? Sovversione al ruolo di madre? Capi di reato che fanno luccicare gli occhi alle alte gerarchie ecclesiastiche, ai pancioni del tubo catodico come Ferrara, a vecchi e nuovi fascisti che parlano da balconi, pulpiti, microfoni, salotti televisivi e aule del parlamento.

Non si tratta di una fatto di cronaca e nemmeno di un ennesimo ma isolato episodio che vede calpestati i diritti.

Quando si parla di donne purtroppo da un pò di tempo a questa parte si parla di una strategia di attacchi ripetuti e collegati tra di loro che mirano non a ledere ma a cancellare del tutto quei diritti che il movimento delle donne si è conquistato e che sono il requisito *minimo* per cui oggi si sentono meno casi di donne morte sotto i ferri da calza delle mammane per un aborto clandestino.

Questo non è un semplice comunicato, perchè come altre volte nella storia non ci limiteremo a denunciare ma resisteremo fino a quando non sarà solo la donna a scegliere per sè e l'autodeterminazione l'unico metro per giudicare le decisioni prese sul nostro corpo.

degeneri@autistiche.org - http://degeneri.noblogs.org/

collettivo femminista Degeneri
-----------------------

ABIEZIONE DI COSCIENZA

Mentre in Italia la mattanza di donne fra le mura domestiche e di lavoratrici e lavoratori nei luoghi di lavoro procede in una complice e connivente indifferenza, nella città di Napoli sommersa fra cumuli mefitici d'immondizia si assiste all'ennesimo atto di violenza e sopraffazione nei confronti di una donna, "rea" di aver usufruito della legge 194. La sera dell'11 febbraio, infatti, alcuni solerti uomini in divisa hanno fatto irruzione, senza alcun mandato, nel reparto del Policlinico di Napoli in cui si eseguono le interruzioni di gravidanza, in cerca di una donna colpevole, a loro parere, di "feticidio" – in realtà la donna aveva abortito un feto morto.

Al crescendo di delirio feti-cista di queste ultime settimane mancavano solo le forze dell'ordine!

Tutto ciò è ancora più paradossale se consideriamo che a Napoli e dintorni l'esistenza delle discariche abusive stracolme di rifiuti tossici è causa, da anni, di seri problemi alla salute dellepopolazioni locali. Fra le innumerevoli sostanze tossiche basti citare la diossina, spesso causa dell'endometrosi (con tutti gli effetti connessi, fino alla sterilità femminile) e delle malformazioni fetali.

Non smetteremo mai di ripeterlo: a oltre 30 anni dal crimine dell'Icmesa di Seveso, il rapporto tra nocività, produzioni di morte e difesa ipocrita della vita permane invariato: mentre intere popolazioni vengono avvelenate in nome del profitto col benestare delle istituzioni, ad essere perseguitate e criminalizzate sono le donne che abortiscono.

Per quanto riguarda l'interruzione volontaria di gravidanza, si sta passando dalla già grave obiezione di coscienza ad una vera e propria abiezione di coscienza.

Di fronte a questa rapida e crescente degenerazione pensiamo sia sempre più urgente dare risposte concrete e rilanciamo con forza la campagna 'Obiettiamo gli obiettori', come primo passo per un percorso di autodeterminazione e autodifesa del corpo, della salute e della vita.

Collettivo femminista Maistat@zitt@, Milano

http://www.vieneprimalagallina.org/

Etichette: , , ,


6.2.08

 

"La donna non si tocca". Il ritorno dei No Vat


Legge 194 e libertà di scelta, sabato a Roma corteo contro le ingerenze vaticane. Mentre infuria la polemica sull'aborto. La Cgil: una discussione pericolosa (ci. gu.)

Ad aprire saranno donne e lesbiche, il concetto sarà «autodeterminazione». Quelli di «no Vat», che sulla strategia politica della Chiesa riflettono con sistematicità ormai da tre anni, lo avevano capito prima: «Quest'anno il tema centrale da mettere in evidenza nella nostra manifestazione nazionale - dice Graziella Bertotto - ci sembrava dovesse essere l'attacco alle donne, quanto l'anno scorso quello all'omosessualità». Dunque la crescente protesta - e preoccupazione - contro l'attacco alla 194 e alle libere scelte delle donne avrà anche una sua piazza: i no Vat danno appuntamento per sabato alle 14 a piazzale Ostiense.

«Ovviamente i contenuti ci sono tutti - precisa Bertotto - tutti quelli che abbiamo elaborato in questi anni, la laicità, l'antifascismo, il tentativo da parte della Chiesa di incidere anche sul sistema del welfare: lo Stato arriva solo laddove non arriva la famiglia». Ma è chiaro che in questo momento di transizione politica piuttosto delicato il documento delle quattro università romane ha aperto una breccia pericolosa e ambigua sul diritto delle donne a non avere un figlio. Si è cominciato parlando della possibilità di far vivere feti partoriti prematuramente, e si è arrivati a parlare della possibilità di rianimare feti abortiti. Una discussione «ambigua e pericolosa» la definisce la Cgil, che si rallegra per «l'avanzamento della ricerca medica che permette di salvare i neonati anche a stadi della gravidanza meno avanzati rispetto al passato», ma mette in guardia dal «sostenere l'esigenza di tentare di rianimare sempre e comunque il feto, anche dopo un aborto terapeutico e anche in palese contrasto con il volere della madre».

Il punto è tutto qui. Ma si vuole spostare il dibattito. Verso più ineffabili e scivolosissime vette, come il piddista Peppino Caldarola: «La Cei, la Binetti e alcuni laici devoti stanno cercando di mettere in luce quella parte della 194 che appare poco applicata o non sufficientemente valorizzata», scrive nel suo blog. E i laici, a suo avviso, tacciono oppure gridano «all'aggressione clericale». Invece, consiglia Caldarola, «il Papa ha ragione a mettersi dalla parte della vita. Tocca a noi laici ricominciare a ragionare sulla vita in modo aperto».

Eppure nel variegato mondo del Partito democratico c'è anche chi, come la senatrice Vittoria Franco osserva: «Sostenere la legittimità di fare a meno del consenso della madre sempre e comunque a me sembra un primo passo verso lo svuotamento del principio fondamentale della legge 194, la maternità responsabile e consapevole». E mentre la ministra della salute uscente Livia Turco invita anche le donne immigrate «a prendere voce e fare qualcosa» per difendere la 194 «a cui sono affezionata», le posizioni più chiare sul dibattito scatenato dal documento dei ginecologi romani arrivano dalla Sinistra Arcobaleno e dai Radicali («non siamo assassine», ha chiarito ieri la ministra alle Politiche comunitarie Emma Bonino al Tg1).

«Quel documento rientra in una concezione astratta della vita in quanto tale - dichiara la senatrice Maria Luisa Boccia del Prc - ma contraddice le modalità stesse con cui la medicina affronta le problematiche della nascita e della morte. Non coinvolgere infatti i genitori rivela una insensibilità sul piano umano ed etico e contraddice gli stessi principi giuridici che prevedono la responsabilità genitoriale e la necessità del consenso per evitare ogni accanimento terapeutico. Scienziati, medici, bioeticisti vogliono sostituirsi alle madri, rendere le donne senza voce. Quando le donne parlano a partire da sé non vengono ascoltate, le riflessioni delle femministe vengono comunque ignorate. Non da ora siamo impegnate a prendere parola nella sfera pubblica, scegliendo però noi le pratiche e i modi con cui farlo».

Da che parte tira il vento di chi, a destra e a sinistra, parla della vita con la testa rivolta al Vaticano, lo spiega Rita Munizzi del Movimento italiano genitori: «Occorre ricordare che se una madre ha deciso di abortire, non può poi accampare ancora diritti sulla vita o sulla morte del feto nel caso in cui questo si possa ancora salvare».

(il manifesto, 5.2.08)

Etichette: , , , ,


5.2.08

 

Occupazione donne: Italia (43%) al penultimo posto Ue


Nel nostro paese, le donne in età lavorativa fuori dal mercato del lavoro sono 7 milioni. Con il 43,6 per cento, l'Italia è penultima nell'Unione Europea per occupazione femminile, superata in questa classifica negativa solo da Malta (34,6 per cento).

Al primi posti ci sono Danimarca (73,4 per cento) e Svezia (70,7). È quanto emerge dalla nota aggiuntiva al rapporto annuale sullo stato di attuazione della strategia di Lisbona, in base alla quale la media europea di occupazione femminile si attesta al 57,2 per cento. Il ritardo italiano, secondo la ricerca, è dovuto al dualismo territoriale.

Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione delle donne di età fra i 25 e i 34 anni è appena del 34,7 per cento, contro il 74,3 del Nord (che quindi supera abbondantemente la media Ue). Dal dossier emerge poi che a parità di lavoro, le donne guadagnano il 9 per cento in meno rispetto ai colleghi maschi; gap che sale al 26,3 per cento per i ruoli manageriali.
Confermata poi la difficoltà delle donne nel raggiungere ruoli direttivi. Nel 63,1 per cento delle aziende quotate (escluse banche e assicurazioni) non figura alcuna donna in cda. Considerando il numero totale dei componenti dei cda, su 2.217 consiglieri, solo 110 (pari al 5 per cento) sono donne. Va un po' meglio nel settore pubblico, anche se i vertici restano maschili: ministre e sottosegretarie sono al 20 per cento, le deputate appena al 17.

(Rassegna.it, 5.2.08)

Etichette: , , ,


4.2.08

 

In Francia è stop delle cassiere: «Basta precarietà»

Sciopero nelle catene della distribuzione, da Auchan a Lidl. Contro i bassi salari, i contratti atipici e gli orari spezzati (Anna Maria Merlo)

Parigi. Per la prima volta, i sindacati (Cgt, Cfdt e Fo) si sono uniti per organizzare una giornata di sciopero tra i dipendenti dei supermercati francesi. Secondo la Cgt, nell'80% dei grandi magazzini c'è stata mobilitazione. Il padronato parla solo di un 2%. Le condizioni di lavoro, assieme ai salari, sono la causa della protesta: il settore è il regno del part-time, dei contratti atipici. Quindi la protesta ha preso diverse forme: un'ora di sciopero, volantinaggio, brevi manifestazioni di fronte agli ipermercati. Per la Cgt, «il successo unitario mostra la giustezza delle rivendicazioni: aumento dei salari, difesa del riposo domenicale, occupazione». Anche i depositi della merce sono stati coinvolti nella giornata di protesta.

Bernard Thibault, segretario della Cgt, si è detto «soddisfatto» per essere riuscito a «unire gli sforzi di tre sindacati per mettere in evidenza la situazione sociale e salariale del personale della grande distribuzione», che sono «i più precari dei dipendenti del commercio».

Carrefour, Auchan, Casino, Picard, anche i discount Lidl e Ed, la protesta ha toccato tutti i grandi nomi, punto di forza dell'economia francese nel mondo. «La realtà dei salari è insostenibile, i datori di lavoro devono aumentare gli stipendi», dice Thibault. In Francia, 650 mila persone lavorano nella grande distribuzione. La grande maggioranza sono donne, le «cassiere», diventate il simbolo vivente dello sfruttamento dell'era post-moderna. Orari atipici, fino a sera, in luoghi lontanissimi dalla residenza personale (i «centri commerciali»), part-time non scelto (ma tempo di lavoro lunghissimo a causa di orari spezzettati, che impediscono di tornare a casa tra una tranche di lavoro e l'altra), lavoro nei giorni festivi, ambienti degradati (come ha messo in luce un anno fa un libro di una medica del lavoro, Dorothée Ramaut, Journal d'un médecin du travail, Le Cherche Midi ed.), difficoltà a sopportare manifestazioni di indifferenza se non di disprezzo da parte della clientela frettolosa. Per di più, le nuove tecnologie (casse automatiche, già in sperimentazione in vari ipermercati) minacciano l'occupazione in un prossimo futuro.

Il 37% dei 650 mila impiegati della grande distribuzione sono a part-time, e questa proporzione sale al 55% per le donne. Il primo stipendio - lordo - di una cassiera è di 16.600 euro l'anno. Dopo vent'anni di lavoro, hanno denunciato ieri molte cassiere, lo stipendio è intorno ai 900-1.000 euro al mese. Nel 2007, gli aumenti sono stati inferiori al 2% mentre l'inflazione corre più veloce. In una Francia dove il potere d'acquisto è diventata la prima preoccupazione, le cassiere si trovano in fondo alla scala sociale.

Il sindacato intanto ha ottenuto il rispetto della legge: pagare le pause (portate al 5% della remunerazione). Il padronato però punta i piedi contro le richieste di diminuire la percentuale di part-time. Ha solo concesso di partecipare a un «gruppo di lavoro». Per la Cgt, «a causa del fatto che questi bassi salari sono legati ad esonerazioni dei contributi, vuol dire che il padronato non ha nessun interesse a cambiare la situazione».

Un piccolo passo avanti potrebbe venire dalla nuova trattativa che il padronato ha accettato di aprire a partire dal mese di aprile: l'eguaglianza uomo-donna. «Se mettiamo tutti questi piccoli passi uno accanto all'altro - dicono a Force ouvrière - questo venerdì sarà considerata una giornata di mobilitazione storica». Ma l'incitamento agli straordinari (con sgravi sui contributi padronali) da un lato e la liberalizzazione dell'apertura la domenica, decise dal governo, rischiano di aggravare ancora la situazione.

(il manifesto, 2.2.08)

Etichette: , , , , ,


This page is powered by Blogger. Isn't yours?

"La donna libera dall’uomo, tutti e due liberi dal Capitale"

(Camilla Ravera - L’Ordine Nuovo, 1921)

--------------------------------------

Sciopero generale, subito!

Stop agli omicidi del profitto! Blocchiamo per un giorno ogni attività. Fermiamo la mano assassina del capitale. Organizziamoci nei posti di lavoro in comitati autonomi operai con funzioni ispettive. Vogliamo uscire di casa... e tornarci!

--------------------------------------